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  • Immagine del redattoreAntonella Sportelli

Il Romanticismo e il Paesaggio

Aggiornamento: 21 ott 2023


Il Romanticismo e il Paesaggio.

Lezione di Storia dell'Arte della professoressa Maria Rita Bentini, Accademia di Belle Arti di Bologna, anno 1997.


In questa lezione sul Romanticismo e il Paesaggio affronteremo anche temi che riguardano i punti nevralgici dell'immaginario romantico storicamente inteso e come questo rappresenti un sentiero verso la modernità.


I due diversi sentieri critici percorsi da Francesco Arcangeli e Giuliano Briganti a tal proposito sono contrapposti, ma possiamo anche vederli nella loro complementarità: mentre Arcangeli si focalizza sul paesaggio, sul nuovo rapporto io-natura in chiave di "illimite", di sconfinamento, di spazializzazione completamente nuova della materia del paesaggio Briganti centra l'attenzione sulla scoperta dell'io e dell'inconscio attraverso Füssli, Blake, Friedrich, Moreau e Bocklin.


Riguardo alla nuova spazializzazione della natura ci sono già novità sconvolgenti nel 500 con artisti tedeschi tra i quali Altdorfer con la sua splendida Battaglia di Alessandro Magno; il nome esatto del dipinto è La battaglia di Alessandro e Dario a Isso (1529). Noi ne analizzeremo solo un dettaglio, mirato, perché così facendo possiamo dimenticare il soggetto storico per puntare l'attenzione su questo sguardo che vola alto sul paesaggio che non è più vero, reale, ma diventa paesaggio cosmografico. Altdorfer amplia i propri confini rispetto al visibile e diventa preveggenza di una visionarietà che solo gli artisti romantici poi sperimenteranno.


Albrecht Altdorfer - Battaglia di Alessandro e Dario a Isso - 1529 - a destra dettaglio paesaggio e dettaglio battaglia
Albrecht Altdorfer - Battaglia di Alessandro e Dario a Isso - 1529 - a destra dettaglio paesaggio e dettaglio battaglia


La suddetta opera di Albrecht Altdorfer somiglia, per la spazializzazione dell'immagine, a Vapore al largo di Harbour's Mouth, con sottotitolo Tempesta di neve, di Turner. La somiglianza sta nella dissoluzione dei confini tra cielo e mare e nell'andamento a turbine, quella dinamica quasi a spirale che sembra inghiottire lo spettatore per far perdere il senso di alto, basso, destra, sinistra, cioè delle coordinate di orientamento umano. Le pennellate tornano su se stesse e si chiudono quasi annegando la presenza umana.


Arcangeli definisce questo "tensione illimite", dove l'io e la natura si condensano e sembrano proprio identificarsi, sparire nella loro duplicità.

In questa nuova visione della natura che il Romanticismo propone c'è un'idea post-copernicana che filtra una eventuale detronizzazione dell'uomo. Esso non è più al centro dell'universo, anzi, fa parte di un sistema che è molto più grande di lui, e intorno a lui ruotano altri mondi. L'uomo non è più il perno del cosmo e il cosmo diventa l'illimite tutto ignoto e incognito da esplorare.


Arcangeli parla di ciò soprattutto a proposito di Turner, ma con un bellissimo aggancio agli artisti del 500 tedesco. La realtà viene intuita al profondo e al suo limite. La polarità che si crea fra due luoghi (Arcangeli parla di due luoghi romantici: luogo della natura e luogo del cuore umano) del tutto moderni è quella di una nuova ansia, di una nuova sconfinata tensione e l'hic et nunc (il qui e ora) che appariva in San Tommaso d'Aquino sta per ricevere una nuova investitura che da Kierkegaard si trasmetterà fino all'Informale moderno anche nella sua variante di pittura di materia. Ciò che in questo dialogo non trova posto è il corpo umano come corpo ideale o protagonista. Non parlo qui del corpo fisico ed esistenziale di Wiligelmo o di de Kooning, parlo del corpo umanistico, di quello che fu la misura dell'universo nelle sue immaginate, ma ora non più verificabili, proporzioni.


Copernico ha aperto una dimensione che scavalla questa condizione ideale. L'uomo come misura delle cose è un'antica illusione che l'inerzia e l'orgoglio possono trascinare ancora con noi, ma è crollata dopo quella astronomica, ma terribilmente umana, non umanistica, rivoluzione. Da Copernico in poi si può dire che il rapporto coscienza-universo è la nostra misura rispetto alle cose. Di qui l'importanza fondamentale per l'immagine visuale moderna di verificarne correttamente la spazialità. Perciò penso che la spazializzazione a fuoco, per così dire, prossimo-remoto-indefinito è il primo radicale cambiamento dell'arte da Brunelleschi in poi ed è la prima gloria dei Romantici inglesi anche se poi sfuggita agli ideologi della spazialità moderna, a cominciare da Francastel.


Certo, questa spazialità, se dovesse risolvere in un recupero delle due dimensioni non sarebbe stata ignota al Medioevo, da Bisanzio in poi; e in questa forma di recupero si risolse infatti in tutti i grandi movimenti dell'arcaismo moderno, soprattutto del nostro secolo ma, in confronto allo spazio romantico, ne è del tutto diversa la collocazione rispetto al medium ambientale. Là dove nel Medioevo intorno a un'immagine c'è uno spazio aperto-chiuso totalmente simbolico nel suo astratto splendore, le immagini di Turner, solo apparentemente bidimensionali, aprono alla vertigine di un luogo realmente illimitato. Si è perduta l'idea di profondità, di misurabilità. In realtà si apre a qualcosa di davvero illimitato; è sparito il luogo infinito ma solido assegnato dal Medioevo alla divinità personale, è abbandonata la certezza terrena della prospettiva italiana e l'immagine si isola in un cosmo di profondità sconfinate, non misurabili. Il corpo, se è presente, viene continuamente minimizzato rispetto all'immensità che lo avvolge. La quantità minima dell'uomo in confronto all'universo, la sua assenza in scala rispetto alla sua dimensione cosmica, sono sistematicamente assunti, per la prima volta, a temi della pittura.


William Turner, La tempesta di neve 1842
William Turner - La tempesta di neve - 1842


I prodromi di tali concezioni, elaborate proprio in quell'area nordica da cui proviene Copernico, sembrano già affacciarsi nel 500 dai danubiani. Ricordate la Battaglia di Alessandro Magno o il San Giorgio di Altdorfer o le opere di Brueghel? Anche se è in loro ancora presente la descrizione dell'uomo, il corpo sparisce dentro la dismisura del rapporto con la natura energica, piena di vitalità, quasi uno spazio incontrollabile che mette l'uomo in secondo piano, tanto da risultarne quasi sommerso e inghiottito.


Si tratta solo di un prodromo. Toccherà passare da Rembrandt, cioè da un artista che interiorizza profondamente il rapporto con la materia e con la natura, per avere una nuova spazializzazione di quest'ultima. Anche in Brueghel il Vecchio del 1565 c'è l'idea di prossimo-remoto, c'è un primo piano in cui si svolge una scena di cacciatori nella neve però, immediatamente, siamo proiettati in uno sconfinamento dell'immagine verso una profondità, che sì, è ancora descritta, ma tendenzialmente comincia a configurarsi come senza confini anzi, l'idea della materia, del paesaggio, della neve è così concreta da poter sentire quasi le punture del freddo; c'è fisicità in questo biancore, la concretezza, lo sguardo diretto nei confronti della natura.



Pieter_Brueghel_i_cacciatori_nella_neve_1565
Pieter Brueghel - Cacciatori nella neve - 1565

Via libera all'immaginario nordico perché è da qui che proviene anche , nel corso della storia, uno sguardo diverso alla natura e, soprattutto, la storia del paesaggio romanticamente inteso; qui ha le sue radici, i suoi prodromi, proprio nel mondo nordico.


Accantoniamo per un attimo il discorso di Arcangeli sulla priorità della natura e guardiamo al luogo del cuore: nuovo stato d'animo romantico, nuovo senso dell'io che non passa solo attraverso la follia o attraverso il neoclassicismo eccitato di Füssli ma anche attraverso qualcosa di più indefinito, di più inquietante e direi quasi anche più moderno che è quello stato d'animo che si definisce melancholia, melancolia, malinconia. Questa disposizione d'animo non è semplicemente ciò che noi intendiamo, nel nostro linguaggio quotidiano, come tristezza. Nel mondo romantico essa nasce come qualcosa di particolare e precipuo, come una scoperta di una parte nascosta dell'io che non significa incubo, non significa follia ma qualcosa di ben definito e fecondissimo perché verrà ripreso anche dai simbolisti: il poeta Verlaine, per esempio, scrive Melancholia; lo stesso de Chirico intesse profondamente i suoi scenari urbani, qualche volta anche i suoi autoritratti, di questo stato d'animo. Melancholia come stato d'animo romantico.


Briganti dice che c'è il luogo del cuore, un illimite che sta dentro. Questa rivoluzione passa attraverso l'arte fantastica, quindi attraverso Füssli, Blake, Goya. Nel 1799 Goya presenta circa ottanta acqueforti e acquetinte che si intitolano l'Idioma Universale e comincia a proferire questa frase: "Il sonno della ragione genera mostri". Il sonno, ovvero il sogno, la visione dell'incubo. E accanto a Goya c'è, come dicevamo, Füssli. Füssli, che è pittore dell'abisso, dice Briganti, pur conservando il corpo umano punta dritto l'obiettivo a questa profondità dell'io.


Resta il fatto che la sua novità più sconvolgente e profonda, nata dalle ceneri della distruzione di ciò che prima era ritenuta certezza, era dotata di una spinta positiva gravida di conseguenze per il futuro; racchiudeva in sé, sin dalle origini, una inestinguibile scintilla prometeica capace di accendere un grande fuoco. La scintilla che spingeva ad avventurarsi alla scoperta delle zone più sconosciute nella ricerca della verità, anche se la verità appariva oscura e intraducibile perché intravveduta limite estremo e profondo del reale. Attraverso infinite diramazioni che non escludono certo dispersioni e contaminazioni o mutazioni sull'onda rivoluzionaria dell'impulso psicologico, il manifestarsi unitario dell'arte, del pensiero, in un'espressiva creatività, portava fatalmente a un necessario ampliamento della conoscenza, alla più serena e dolorosa verifica della condizione dell'uomo conquistata sconfinando in quello che la pura razionalità poteva anche intendere come sogno, decadenza, follia.


Tutto portava ad una dilatazione dell'io che registrava a suo passivo i rischi dell'egocentrismo, dell'allargamento da parte dell'inconscio, all'autodistruzione o, peggio, verso il compiacimento di tutto questo, cioè la soddisfazione struggente di abbandonarsi a una subitanea istintualità aggrappandosi alla fragile zattera dell'autoconservazione; ma poteva anche significare l'adempimento di uno dei primi doveri dell'uomo, ovvero quello di conoscersi, di trascendere l'immagine che si era creato di se stesso consegnando un nuovo senso di realtà all'antico mito orfico della discesa agli inferi.


Discesa agli inferi, scoperta della notte e dunque indagini di nuovi stati d'animo. In Friedrich non c'è solo il paesaggio, e il discorso di Briganti potrebbe coinvolgere anche lui, ovvero: non si tratta solo dell'illimite che è nel paesaggio. Nei dipinti di Friedrich c'è un singolarissimo, uno strano, un'inquietante stato d'animo che vela e qualche volta mette addirittura in secondo piano il senso stesso del paesaggio.

Nel dettaglio de Il monaco in riva al mare, del 1808 circa, il monaco di cui non vediamo il volto è soltanto una presenza di spalle, come spesso succede nelle opere di Friedrich, ma c'è un senso di sconfinata solitudine, di tristezza, di perdita di sé difronte a questo mondo immenso.


Nel catalogo della mostra di Trento (Nuovo sentimento della natura) c'è un saggio che si intitola La melancolia come fattore originario del romanticismo, appunti sul caso tedesco, di Pierangelo Schiera: interrogarsi sul rapporto fra Melanconia e Romanticismo significa innanzitutto chiedersi che cosa si intenda per melancolia prima di quest'ultimo.

L'ampia conoscenza dell'argomento nella letteratura dimostra quanto profondamente radicata fosse la struttura della melancolia nella nostra cultura occidentale. Essa non fu assolutamente un'invenzione del Romanticismo. Bisognerebbe semmai porsi la domanda opposta: se, cioè, in qualche modo, non sia stato proprio il Romanticismo una creazione della melancolia.


C'è un'altra opera di Friedrich che è pervasa da uno stesso, identico stato d'animo del perdersi, della tristezza, della dispersione dell'io in qualcosa che non ha confini e non è soltanto la natura. Si tratta di Paesaggio serale con due uomini che unisce agli stessi ingredienti dell'opera precedente il particolare momento della giornata. È un paesaggio serale, crepuscolare, per cui tutto sembra inafferrabile.


Caspar_David_Friedrich_._Paesaggio_serale_con_due_uomini_1830-1835
Caspar David Friedrich - Paesaggio serale con due uomini - 1830-1835

Friedrich allude a uno stato d'animo inquieto ponendo proprio queste figure in una luce, in un dato momento, collocandole difronte a una distesa umida di acque con un piccolo fiume (lettura simbolica: il piccolo fiume della vita che si ricongiunge all'eternità e i due personaggi che sono in due per alludere alla fraternità, alla solidarietà che ci può essere fra gli esseri umani difronte a questa totalità illimite che è la natura). Luogo nuovo dell'animo romantico e, e l'idea della malinconia è più forte dell'interpretazione simbolica.


La malinconia si unisce spesso al sehnsucht, inteso nel senso di ansia, desiderio, malattia del desiderare, desiderare che non ha un oggetto ben preciso ma è un desiderare qualcosa di cui non si sa ancora l'esistenza, o di cui si avverte a malapena la presenza: quindi un desiderio inteso semplicemente come tensione dell'anima.





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