top of page
  • Immagine del redattoreAntonella Sportelli

Lo specchio nell'arte

Aggiornamento: 6 dic 2023


Lo specchio nell'arte - Analisi delle opere di Jan Van Eyck e Diego Velázquez: Ritratto dei coniugi Arnolfini e Las Maninas.


Lo specchio nell'arte.


Il filo conduttore di queste mie conversazioni sarà lo specchio. Lo specchio è sempre un prodigio in cui realtà ed immaginazione si sfiorano e si confondono, come si sfiorano e si confondono verità e finzione nella pittura.

Ricordate l'episodio di Parrasio che inganna Zèusi, tramandatoci da Plinio? Zèusi aveva dipinto dell'uva in modo così verosimile che gli uccelli erano venuti a beccarla. Parrasio invitò il rivale nel suo studio per mostrargli a sua volta l'opera da lui eseguita, e quando Zèusi tentò con gesto impaziente di sollevare il drappo che copriva il quadro, si accorse che non si trattava di un drappo vero, ma dipinto.


Arte e illusione, dunque: un binomio che dà il titolo a un famosissimo saggio di Ernst Gombrich. E da Gombrich vorrei partire per mettere in parallelo due opere nelle quali lo specchio diventa elemento primario della costruzione pittorica: la prima è il Ritratto dei coniugi Arnolfini, di Van Eyck, datata 1434; la seconda, Las Maninas, di Velázquez, del 1656.

Scrive Gombrich: " Quella strana zona che chiamiamo arte è come una sala tutta specchi, o una galleria acustica in cui sono percepibili di lontano i minimi sussurri. Ogni forma evoca mille ricordi ed immagini...".

Nessuna opera d'arte - fa intendere Gombrich - è totalmente autonoma. Per quanto grande e originale che sia, essa si rifà a dei precedenti. In tal senso si può parlare dell'arte come di un sistema codificato di segni, le cui regole nascono e vengono stabilizzate all'interno del sistema stesso. I termini di riferimento, le formule, le convenzioni, le cifre e gli stilemi stanno dentro e non fuori la fabbrica dell'arte. La quale è quindi una sorta di grande officina autosufficiente in cui l'operatore artista trova i mezzi per costruire il prodotto.

Diceva Wolfflin: "Tutti i quadri devono di più agli altri quadri che non alla natura".

Insomma, l'arte è metalinguaggio, si riflette su se stessa ed imbocca un percorso circolare, avvitandosi in una spirale che non ha inizio né fine. In ogni opera si trovano tracce più o meno scoperte di opere precedenti. Ed ogni opera entra in un gioco complesso di riferimenti e di citazioni, si avviluppa in una fitta trama, spostandosi avanti e indietro nel tempo.


Questa breve premessa metodologica era necessaria per porre in relazione i due quadri prima citati, che vedono la luce a più di due secoli di distanza l'uno dall'altro e che trovano nello specchio un comune strumento linguistico.

È documentato che il Ritratto degli Arnolfini di Van Eyck, oggi alla National Gallery di Londra, fece parte delle collezioni reali di Madrid, per cui Velázquez poté così averne diretta cognizione e subire il fascino di una composizione che attraverso lo specchio inglobava lo spazio al di là della scena e che portava nel visibile l'invisibile.

L'immagine di Van Eyck rappresenta una scena di matrimonio, quella del ricco mercante Giovanni Arnolfini con Elisa Cenani. Altre interpretazioni si sono succedute nel tempo, come quella che vede nell'uomo l'autoritratto dell'artista o quella che spiega la scena come una misteriosa cerimonia di negromanzia, o ancora quella che rimanda ad una sorta di Annunciazione profana, laddove l'uomo adombrerebbe il gesto dell'angelo annunziante e la donna sarebbe incinta. Più probabile è invece l'interpretazione del matrimonio.



Ritratto degli Arnolfini, Van Eyck, 1434, a destra dettaglio specchio e firma
Ritratto degli Arnolfini - Van Eyck - 1434 - A destra dettaglio specchio e firma


Ma veniamo allo specchio convesso, con dieci episodi della passione miniati entro i tondini della cornice: uno specchio che riflette l'immagine della parete antistante e che ritrae due figure che si affacciano dal vano di una porta: forse due testimoni o forse il ritratto del pittore e del suo assistente, che così comparirebbero nella scena, pur essendo al di là della medesima. Una conferma in tal senso verrebbe dal fatto che sopra lo specchio è chiaramente leggibile la scritta: "Johannes de Eyck fuit hic", una firma che non sarebbe una mera attestazione di autografia, quanto l'intenzione di segnalare l'esistenza dell'artista lì, ovvero nello specchio collocato sotto la scritta.

Quella scritta possiamo anche non metterla in rapporto diretto con lo specchio, come se fosse vergata sulla parete, messa dentro la scena e dotata di una sua autonomia. Ma anche in questo caso dovremmo intendere che l'autore era davvero presente all'avvenimento.

Si può avanzare una terza ipotesi: che la frase appartenga, come di solito le firma, alla superficie del dipinto. Sarebbe invero un caso assai raro sia per quanto riguarda il tipo di scrittura (cancelleresca), sia per quanto riguarda l'ubicazione (al centro in alto). La firma era generalmente eseguita in lettere capitali e veniva collocata nella parte bassa della composizione, a destra e a sinistra. Comunque, se anche di una firma si tratta, ugualmente l'artista manifesta la sua presenza: questa volta nella fattura del dipinto.

Infine, un'altra possibilità: che come in un rebus da settimana enigmistica, in una sorta di commistione tra registro verbale (la scritta) e registro visivo (l'immagine dello specchio), al fruitore venga offerto un messaggio così decifrabile: Johannes de Eyck fuit hic: speculum Jan Van Eyck fu qui: lo specchio o uno specchio.


Nel Ritratto degli Arnolfini lo specchio è il fulcro prospettico dell'opera, il modulo al quale l'intera tessitura spaziale del dipinto fa esplicito riferimento. È elemento rivelatore di una spazialità profonda, articolata e nello stesso tempo compressa. Lo specchio funge da lente che permette di decifrare le immagini secondo il principio della concentricità, tanto che lo spazio si incurva e si schiaccia per consentire all'osservatore una visione dilatata che unisce il dentro e il fuori, l'interno domestico e il paesaggio al di là della finestra.

Racchiudere in una piccola superficie specchiante quanto più è possibile di realtà, rendere visibile l'invisibile, rappresentare un fatto da due posizioni contrapposte: sono questi i temi cari a Van Eyck e a tanta parte della pittura fiamminga del Quattrocento e del Cinquecento, da Memling a Matsys, dal Maestro di Flemalle (Robert Campin) a Petrus Christus.


Guadiamo perciò, prima di passare a Velasquez, come l'artificio dello specchio sia ad esempio presente in un discepoli di Van Eyck: Petrus Christus, ancora una volta a conferma della circolarità dell'esperienza estetica e nello specifico del passaggio di un motivo da maestro ad allievo.

In Sant'Eligio e i fidanzati (Sant'Eligio nella bottega di un orefice), del 1449, ora a New York, il motivo eyckiano dell'invisibile che entra nella rappresentazione trova attuazione attraverso lo specchio convesso che il pittore raffigura in primo piano a destra della scena. Lo specchio non occupa più quella posizione centrale che aveva negli Arnolfini e nondimeno gioca un ruolo fondamentale.



Petrus_Christus_Sant'Eligio_nella_bottega_di_un_orafo_1449
Petrus Christus - Sant'Eligio nella bottega di un orafo - 1449

È pur sempre uno "specchio conquistatore", che ingloba nella piccola bottega dell'orefice una scena urbana composta da case affacciantesi su una strada, nella quale stanno due personaggi.

Lo specchio ha una funzione che potremmo definire narrativa, dal momento che rende possibile il racconto di una storia e decifrabile la visione: ci dice infatti che Sant'Eligio, patrono degli orafi, volge lo sguardo fuori dalla bottega e da fuori è osservato mentre osserva la coppia riflessa nello specchio. Soltanto il riflesso dello specchio ci consente di "situare" la scena rispetto all'esterno e di comprendere qual è l'oggetto dello sguardo di Sant'Eligio.

Ma lo specchio di Sant'Eligio e i fidanzati assolve anche un'altra finalità: è parte integrante e costitutiva dell'organizzazione spaziale del quadro; compensa l'effetto di disimmetria provocato dalla presenza dei due fidanzati dalla stessa parte del quadro rispetto a Sant'Eligio. In tal senso, lo specchio sarebbe un "quarto personaggio", un elemento animato che evoca nella sua sagoma ovale la forma di un viso girato di tre quarti, come quello del Santo orafo.


Lo spazio compresso della bottega, il bilancino e lo specchio convesso tornano in un'opera di Quentin Matsys, del primo decennio del 500: Il banchiere e sua moglie. Ma il carattere sacro che era proprio del Sant'Eligio (il Santo era rappresentato con l'aureola) cede il posto ad un'atmosfera profana: il banchiere pesa le monete, mentre la moglie, interessata all'operazione, segue il lavoro del marito, distogliendo l'attenzione dal libro devozionale che ha in mano. Lo specchio riflette, alla maniera di Van Eyck, la finestra della bottega, poi un uomo con un turbante rosso che sta accanto alla vetrata e infine il paesaggio esterno: un albero, il campanile di una chiesa, l'angolo di una casa.



Quentin-Matsys_-_Il_banchiere_e_sua_moglie_1514
Quentin Matsys - Il banchiere e sua moglie - 1514

Chiudiamo questo rapido excursus sullo specchio nella pittura fiamminga con il Maestro di Flemalle (Robert Campin), di cui vediamo lo sportello sinistro del Trittico del Canonico Werl, del 1438. Esso raffigura San Giovanni Battista con il Canonico ed ha una composizione spaziale che gioca sull'opposizione fra l'opacità delle superfici di legno e la trasparenza dei vetri, tra le linee diritte e le curvature del soffitto. A tale dualismo obbediscono anche gli specchi: in alto, uno specchio rotondo e convesso, che riflette una finestra attraverso la quale si scorgono due case; in basso, uno specchio piano e rettangolare, in cui si riflette l'immagine del Canonico inginocchiato.



Maestro di Flemalle (Robert Campin) - Trittico del Canonico Werl - 1438 - sportello sinistro
Maestro di Flemalle (Robert Campin) - Trittico del Canonico Werl - 1438 - sportello sinistro


Las Meninas o La famiglia di Filippo IV.

Se in Van Eyck lo specchio convesso sulla parete di fondo riflette, integrandoli nella rappresentazione, due personaggi (i testimoni o il pittore e il suo assistente), ugualmente nella grande tela di Velázquez lo specchio piano situato in fondo alla stanza riflette due figure, Filippo IV e sua moglie Marianna, ovvero una coppia posta fuori dal quadro, nello spazio reale dell'osservatore: una coppia che rientra in scena per effetto dello specchio.



Las_Meninas_Diego_Velázquez_1656
Las Meninas - Diego Velázquez - 1656

La stanza che accoglie questa sorta di recita silenziosa in cui consiste Las Meninas è un locale, oggi identificato, del palazzo dell'Alcazar, dove Velázquez aveva bottega. È una stanza ampia, con diverse finestre sul muro a destra, delle quali soltanto due lasciano entrare luce esterna e tra le quali sono appesi dei quadri. Sullo sfondo c'è una porta semiaperta che dà su una scala molto luminosa su cui spicca la figura di un uomo vestito di nero, con cappa, cappello in una mano, mentre l'altra sembra sollevare una tenda. Vicino alla porta lo specchio e sotto lo specchio un qualcosa che non si sa se sia un mobile (un cassone, probabilmente) o altro. A sinistra dello specchio sembra esserci una porta chiusa, simile a quella aperta. Nella parte alta della parete vi sono due quadri, quasi indecifrabili, che però la pazienza degli studiosi ha identificato in due copie da Rubens e da Jordaens, dipinte da Juan Bautista del Mazo, allievo e genero di Velázquez. Sulla sinistra sta la grande tela, davanti alla quale Velázquez è in piedi col pennello in resta nella destra e la tavolozza e un'asta sulla sinistra. È vestito di nero e porta sul petto la croce rossa dell'Ordine di Santiago (aggiunta quando il pittore fu nominato cavaliere di quell'Ordine).


La parte centrale di questo scenario è occupata dall'infanta Margherita (nata nel 1651, di 5 anni quindi all'epoca del dipinto). Essa sta in piedi, coperta da una sottana con guardinfante, ed è rivolta verso l'osservatore (o verso i genitori), nella cui direzione guarda o ci guarda. Ai due lati stanno le due damigelle d'onore, les meninas che hanno dato l'attuale titolo al quadro, chiamato così per la prima volta nel 1843. Una delle damigelle, Maria Augustina Sarmiento è inginocchiata e offre alla bambina in un vassoio argentato una brocchetta di terracotta rossa, verso cui Margherita tende la mano destra. Dal lato opposto, leggermente piegata in segno di rispetto, l'altra menina, Isabel de Velasco, a destra della quale vediamo una nana macrocefala (Mabarbola), che guarda anch'ella verso di noi. Al suo fianco un nanetto con il piede sinistro posato su un grande e impassibile cane sdraiato. Più in fondo un uomo in nero, con le mani incrociate, a cui si rivolge gesticolando una donna vestita da governante, con copricapo, abito bianco e mantello nero. Infine, nella porta sullo sfondo, la figura di un uomo identificato nel direttore dell'arazzeria della regina, José Nieto Velázquez, che nonostante il cognome pare non fosse parente del pittore.


Sin qui la descrizione dell'apparente naturalezza del quadro. Andando più a fondo ci accorgiamo che la maggior parte dei personaggi ritratti guardano verso un punto esterno all'opera, dove sono collocati i sovrani, come si evince dall'imagine riflessa nello specchio. Ed ecco un paradosso spazio-temporale: l'artista al cavalletto è lo stesso autore dell'opera; è contemporaneamente dentro e fuori, è l'oggetto della rappresentazione, ma anche colui che rappresenta. Paradossalmente, Velázquez ai nostri occhi scompare come autore quando entra nel quadro col suo pennello in resta davanti ala grande tela; e riemerge, uscendone. Insomma, Las Meninas irretisce lo spettatore in un gioco di finzione e di visibilità incompatibili.


Lo sguardo fondatore è quello dei committenti, i sovrani, dei quali l'artista autoritratto redige l'immagine. E però in quello stesso punto di vista fondatore siamo collocati anche noi spettatori, a cui i personaggi effigiati "danno del tu", guardandoci. Dunque, anche il fruitore è sovrano dell'immagine.

Dell'opera di Velázquez si è detto trattarsi di una "rappresentazione della rappresentazione", ovvero di un dipinto che mette in scena non un gruppo di famiglia, ma l'intero apparato dell'arte. Antonio Palomino, pittore e ritrattista spagnolo del 700 racconta che Luca Giordano, osservando Las Meninas, ebbe da esclamare: "Questa è la Teologia della pittura". Oggi forse potremmo dire che è la Teoria dell'arte, espressa nella materia stessa della pittura.


Le splendide analisi che avete letto sono la trascrizione di una dispensa proveniente dalle Accademie di Belle Arti (Firenze e Bologna) che ho frequentato ormai molti, molti anni fa. Ho conservato questi fogli per circa 30'anni, tanto sono per me preziosi, ed oggi ho deciso di condividerli con voi. Purtroppo non ricordo e non trovo traccia del docente che mi ha fornito questo materiale, non so chi ha scritto queste righe, e chiedo a voi lettori di contattarmi nel caso vi fossero noto l'autore in modo che possa aggiungere il suo nome.


Grazie per essere arrivati sino a qui. Se lo desiderate potete iscrivervi al mio blog in modo da ricevere avvisi sull'uscita di prossimi articoli.



137 visualizzazioni2 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page